I farmaci
ottenibili per via biotecnologica sono antibiotici,
vaccini, fattori di crescita, ormoni, farmaci antinfettivi e antitumorali,
emoderivati, prodotti per la terapia enzimatica, anticorpi monoclonali con
finalità terapeutiche e, infine, prodotti
utili per la terapia genica.
Molta attenzione viene posta anche alla possibilità
di identificare, di isolare e di
purificare le proteine prodotte da agenti patogeni. Si può in tal modo determinare la struttura tridimensionale
delle proteine stesse mediante cristallografia a raggi X e progettare poi molecole che
ne inibiscano la specifica funzione. La tecnologia del DNA ricombinante ha comportato vantaggi rispetto
alle produzioni tradizionali e ha consentito di sviluppare vaccini di nuovo tipo con efficacia
allargata al settore virale, come, per esempio, il vaccino contro l’epatite B. Per quello che riguarda le proteine del
sangue è stato individuato e clonato il gene che codifica il fattore VIII, proteina responsabile
della coagulazione del sangue e carente negli individui affetti da emofilia. Fra gli agenti anticoagulanti che prevengono patologie quali l’infarto,
l’embolia polmonare e la trombosi cerebrale, vengono prodotti, mediante
tecnologie genetiche, l’urochinasi e il tPA (tissue plasminogen activator ).
Vaccino contro l'epatite B
L'epatite B è una malattia virale che colpisce solo l’uomo. La malattia si manifesta, dopo un periodo di incubazione di 45-160 giorni, con malessere, mancanza di appetito, nausea, vomito, dolore addominale, e comparsa, dopo 1-2 giorni, di ittero. La forma acuta in circa l’1-2% dei casi evolve in epatite fulminante che ha un tasso di mortalità di 63-93%. L’epatite cronica può evolvere in cirrosi (circa il 50% dei casi), in insufficienza epatica e carcinoma epatocellulare primitivo. Tutti i soggetti portatori di epatite B sono potenzialmente contagiosi.
La trasmissione dell’infezione può avvenire per quantità anche minime di sangue, o attraverso esposizione delle mucose a sangue o siero o secrezioni sessuali. Circa il 45% della popolazione mondiale vive in aree dove vi è un’elevata prevalenza di infezione cronica (l’8% della popolazione è portatore di epatite B). La malattia è più frequente nelle aree tropicali e subtropicali in condizioni di scarsa igiene, sovraffollamento, basso livello socio-economico. Nei Paesi sviluppati l’infezione si presenta in gruppi di popolazione ad alto rischio (tossicodipendenti, omosessuali, dializzati, operatori sanitari). La vaccinazione antiepatite B è raccomandata a tutte le persone che lavorano in ambito sanitario. Alle persone non vaccinate precedentemente che, in aree ad alta o moderata endemia, lavoreranno in ambito sanitario per qualunque durata, è fortemente consigliata la vaccinazione prima del viaggio.
Il vaccino è una sospensione sterile contenente il
principale antigene di superficie purificato del virus prodotto con una
tecnologia del DNA ricombinante, adsorbito su ossido di alluminio idrato. L’antigene
è prodotto da colture di lieviti (Saccharomyces Cerevisiae) che, con processi
di ingegneria genetica, incorporano il gene che codifica il maggiore antigene
di superficie del virus dell’epatite B (HBV). Questo antigene di superficie
dell’epatite B (HBsAg) espresso in cellule di lievito è poi purificato tramite
diversi passaggi fisico-chimici.
Telomeri, il punto debole delle cellule tumorali
Le cellule tumorali
hanno un punto debole: i telomeri,
ossia la porzione estrema del cromosoma,
che se si altera, le rende sensibili all’azione dei farmaci. La
scoperta è del gruppo diretto da Annamaria
Biroccio, ricercatrice dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena
di Roma, che studia da tempo i telomeri
e i suoi componenti quali potenziali bersagli
terapeutici per il trattamento
dei tumori umani. Lo studio, pubblicato su Nucleic
Acid Research (2015), ha rivelato il meccanismo attraverso
il quale i farmaci riescono a riconoscere – e
uccidere – esclusivamente le cellule
tumorali, lasciando intatte
quelle sane.
I telomeri
per la loro funzione possono essere considerati l’orologio biologico
della cellula; si accorciano ogni
volta che la cellula si divide sin quando, divenuti criticamente corti,
inducono un blocco della duplicazione e avviano la cellula verso un processo
chiamato senescenza. A contrastare
questo fenomeno del tutto normale, è la telomerasi, un enzima in grado di sintetizzare nuove sequenze telomeriche, allungando di fatto la
vita cellulare.
Nelle cellule tumorali la telomerasi continua ad agire con efficienza
rendendole sempre giovani e quindi “immortali”. Al contrario nelle
cellule normali la telomerasi
con gli anni si indebolisce fino a sparire. La Biroccio spiega di aver identificato molecole capaci di legare una particolare struttura dei telomeri, chiamata G-quadruplex (sequenza di DNA ricca in guanina, in grado di formare strutture a
quattro filamenti, sostenute da legami idrogeno tra quattro guanine) e di bloccare l’accesso della telomerasi. Queste molecole sono in grado di distruggere
rapidamente l’architettura dei telomeri
determinando alterazioni citogenetiche che portano all’attivazione della
morte cellulare programmata per apoptosi. Nello studio si è scoperto che a
rendere le cellule tumorali particolarmente sensibili all’azione di tali
farmaci è la presenza di telomeri alterati.
© Andrew Brookes/Corbis |
In ogni tipo di ambiente abbondano i microrganismi portatori di geni per la resistenza agli antibiotici. Per combattere un fenomeno che minaccia l'efficacia di farmaci salvavita bisogna quindi comprendere i meccanismi che in natura ne rallentano la diffusione a tutte le popolazioni batteriche.
Uno studio condotto da microbiologi e genetisti dell'Università di Lione ha scoperto che in tutti i 71 ambienti presi in considerazione, senza esclusione, erano presenti microrganismi portatori di geni per la resistenza agli antibiotici. Oggi la capacità dei batteri di adattarsi ai farmaci supera quella di sviluppo e innovazione dell'industria farmaceutica. I ricercatori hanno usato le banche dati dei genomi batterici ottenuti con le tecniche di sequenziamento rapido, confrontandoli con le informazioni sui geni per la resistenza agli antibiotici identificati negli agenti patogeni che colpiscono i pazienti negli ospedali.
© Tim Vernon/ /Science Photo Library/Corbis |
La maggiore varietà di geni della resistenza è stata
scoperta nei campioni di suolo, mentre i tipi più comuni di geni identificati
riguardano due tipi di meccanismo: le cosiddette pompe di efflusso (che
riducono la concentrazione di antibiotico all'interno del batterio) e l'azione
di alcuni enzimi (che permettono di bypassare le vie metaboliche bloccate
dall'antibiotico). Sono i meccanismi che conferiscono la resistenza, per
esempio, a molti farmaci di uso comune, come la vancomicina, la tetraciclina o
gli antibiotici beta-lattamici.
La lotta a questo preoccupante fenomeno sarà molto lunga. La strategia migliore per vincerla potrebbe essere quella di comprendere meglio i meccanismi di selezione naturale che impediscono a questi geni di passare dai batteri che ne sono portatori a tutte le popolazioni batteriche dell'ambiente.
Terapia genica: l'enzima con il "pass", che attraversa la barriera ematoencefalica
Ricercatori napoletani dimostrano in laboratorio come superare la barriera che ostacola il trasporto di farmaci nel sistema nervoso. Nuova speranza per i pazienti affetti da sindrome di San Filippo, grave malattia neurodegenerativa di origine genetica.
A descrivere
questa nuova strategia è uno studio coordinato da Alessandro Fraldi
dell’Istituto Telethon di genetica e medicina di Napoli.
La sindrome di San
Filippo è dovuta a un difetto ereditario in un enzima, la sulfamidasi, deputato
allo smaltimento di un particolare tipo di zucchero, che con il tempo tende ad
accumularsi e a danneggiare diversi tessuti, specialmente quello nervoso.
Questi pazienti vanno incontro ad un grave e rapido deterioramento mentale già a
partire dai primi anni di vita, progressiva perdita delle capacità motorie,
problemi di comunicazione, convulsioni. Al momento non esiste alcuna terapia
efficace, ma soltanto una serie di interventi sui sintomi.
Nei
pazienti affetti da questa grave patologia genetica non basta somministrare dall'esterno l’enzima mancante prodotto industrialmente, perché il cervello è
protetto da una barriera naturale, chiamata emato-encefalica, che seleziona con
attenzione le sostanze che possono arrivare alle cellule nervose, bloccando quelle
che riconosce come estranee. I
ricercatori hanno provato ad aggirare il problema con una nuova tecnica in
grado di “convincere il cervello” ad accettare il farmaco. Hanno inserito il
gene codificante per la versione corretta della sulfamidasi in un virus adatto
alla terapia genica. Una volta iniettato nel sangue, questo vettore virale entra preferenzialmente
nel fegato, organo che funziona come un vero e proprio serbatoio di enzimi per
il resto dell’organismo. La particolarità del metodo sta nel fatto che al gene
terapeutico sono stati aggiunti due “pezzetti” speciali: uno che aumenta la
secrezione dell’enzima nel sangue da parte del fegato, l’altro che rende
l’enzima riconoscibile da parte della barriera emato-encefalica e ne consente
così l’accesso al sistema nervoso.
In questa versione la terapia enzimatica sostitutiva si è dimostrata in
grado di raggiungere il cervello, nel modello animale della sindrome di San
Filippo: non solo non si sono registrati effetti tossici, ma si è riscontrata
una capacità dell’enzima di raggiungere le cellule del cervello, esercitare la
sua normale azione detossificante e soprattutto migliorare significativamente i
sintomi della malattia, anche dal punto di vista comportamentale.
Ottimo Lavinia! Grazie dell'interessante contributo.
RispondiEliminaGrazie prof.!
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