venerdì 3 aprile 2015

Le biotecnologie e l’industria farmaceutica

I farmaci ottenibili per via biotecnologica sono antibiotici, vaccini, fattori di crescita, ormoni, farmaci antinfettivi e antitumorali, emoderivati, prodotti per la terapia enzimatica, anticorpi monoclonali con finalità terapeutiche e, infine, prodotti utili per la terapia genica

Molta attenzione viene posta anche alla possibilità di identificare, di isolare e di purificare le proteine prodotte da agenti patogeni. Si può in tal modo determinare la struttura tridimensionale delle proteine stesse mediante cristallografia a raggi X e progettare poi molecole che ne inibiscano la specifica funzione. La tecnologia del DNA ricombinante ha comportato vantaggi rispetto alle produzioni tradizionali e ha consentito di sviluppare vaccini di nuovo tipo con efficacia allargata al settore virale, come, per esempio, il vaccino contro l’epatite B. Per quello che riguarda le proteine del sangue è stato individuato e clonato il gene che codifica il fattore VIII, proteina responsabile della coagulazione del sangue e carente negli individui affetti da emofilia. Fra gli agenti anticoagulanti che prevengono patologie quali l’infarto, l’embolia polmonare e la trombosi cerebrale, vengono prodotti, mediante tecnologie genetiche,  l’urochinasi e il tPA (tissue plasminogen activator ).

 Vaccino contro l'epatite B

L'epatite B è una malattia virale che colpisce solo l’uomo. La malattia si manifesta, dopo un periodo di incubazione di 45-160 giorni, con malessere, mancanza di appetito, nausea, vomito, dolore addominale, e comparsa, dopo 1-2 giorni, di ittero. La forma acuta in circa l’1-2% dei casi evolve in epatite fulminante che ha un tasso di mortalità di 63-93%. L’epatite cronica può evolvere in cirrosi (circa il 50% dei casi), in insufficienza epatica e carcinoma epatocellulare primitivo. Tutti i soggetti portatori di epatite B sono potenzialmente contagiosi. 

La trasmissione dell’infezione può avvenire per quantità anche minime di sangue, o attraverso esposizione delle mucose a sangue o siero o secrezioni sessuali. Circa il 45% della popolazione mondiale vive in aree dove vi è un’elevata prevalenza di infezione cronica (l’8% della popolazione è portatore di epatite B). La malattia è più frequente nelle aree tropicali e subtropicali in condizioni di scarsa igiene, sovraffollamento, basso livello socio-economico. Nei Paesi sviluppati l’infezione si presenta in gruppi di popolazione ad alto rischio (tossicodipendenti, omosessuali, dializzati, operatori sanitari). La vaccinazione antiepatite B è raccomandata a tutte le persone che lavorano in ambito sanitario. Alle persone non vaccinate precedentemente che, in aree ad alta o moderata endemia, lavoreranno in ambito sanitario per qualunque durata, è fortemente consigliata la vaccinazione prima del viaggio. 




Il vaccino è una sospensione sterile contenente il principale antigene di superficie purificato del virus prodotto con una tecnologia del DNA ricombinante, adsorbito su ossido di alluminio idrato. L’antigene è prodotto da colture di lieviti (Saccharomyces Cerevisiae) che, con processi di ingegneria genetica, incorporano il gene che codifica il maggiore antigene di superficie del virus dell’epatite B (HBV). Questo antigene di superficie dell’epatite B (HBsAg) espresso in cellule di lievito è poi purificato tramite diversi passaggi fisico-chimici. 

Sviluppare farmaci diretti contro il tallone d'Achille dei tumori:

Telomeri, il punto debole delle cellule tumorali

Le cellule tumorali hanno un punto debole: i telomeri, ossia la porzione estrema del cromosoma, che se si altera, le rende sensibili all’azione dei farmaci. La scoperta è del gruppo diretto da Annamaria  Biroccio, ricercatrice dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma, che studia da tempo i telomeri e i suoi componenti quali potenziali bersagli terapeutici per il trattamento dei tumori umani. Lo studio, pubblicato su Nucleic Acid Research (2015), ha rivelato il meccanismo attraverso il quale i farmaci riescono a riconoscere – e  uccidere – esclusivamente le cellule tumorali, lasciando intatte quelle sane. 

I telomeri per la loro funzione possono essere considerati l’orologio biologico della cellula; si accorciano ogni volta che la cellula si divide sin quando, divenuti criticamente corti, inducono un blocco della duplicazione e avviano la cellula verso un processo chiamato senescenza. A contrastare questo fenomeno del tutto normale, è la telomerasi, un enzima in grado di sintetizzare nuove sequenze telomeriche, allungando di fatto la vita cellulare.

Nelle cellule tumorali la telomerasi continua ad agire con efficienza rendendole sempre giovani e quindi “immortali”. Al contrario nelle cellule normali la telomerasi con gli anni si indebolisce fino a sparire. La Biroccio spiega di aver identificato molecole capaci di legare una particolare struttura dei telomeri, chiamata G-quadruplex (sequenza di DNA ricca in guanina, in grado di formare strutture a quattro filamenti, sostenute da legami idrogeno tra quattro guanine) e di bloccare l’accesso della telomerasi. Queste molecole sono in grado di distruggere rapidamente l’architettura dei telomeri determinando alterazioni citogenetiche che portano all’attivazione della morte cellulare programmata per apoptosi. Nello studio si è scoperto che a rendere le cellule tumorali particolarmente sensibili all’azione di tali farmaci è la presenza di telomeri alterati.

Gli antibiotici e l'immensa riserva di geni per l'antibiotico-resistenza

© Andrew Brookes/Corbis

In ogni tipo di ambiente abbondano i microrganismi portatori di geni per la resistenza agli antibiotici. Per combattere un fenomeno che minaccia l'efficacia di farmaci salvavita bisogna quindi comprendere i meccanismi che in natura ne rallentano la diffusione a tutte le popolazioni batteriche. 

Uno studio condotto da microbiologi e genetisti dell'Università di Lione ha scoperto che in tutti i 71 ambienti presi in considerazione, senza esclusione, erano presenti microrganismi portatori di geni per la resistenza agli antibiotici. Oggi la capacità dei batteri di adattarsi ai farmaci supera quella di sviluppo e innovazione dell'industria farmaceutica. I ricercatori hanno usato le banche dati dei genomi batterici ottenuti con le tecniche di sequenziamento rapido, confrontandoli con le informazioni sui geni per la resistenza agli antibiotici identificati negli agenti patogeni che colpiscono i pazienti negli ospedali.

© Tim Vernon/ /Science Photo Library/Corbis



La maggiore varietà di geni della resistenza è stata scoperta nei campioni di suolo, mentre i tipi più comuni di geni identificati riguardano due tipi di meccanismo: le cosiddette pompe di efflusso (che riducono la concentrazione di antibiotico all'interno del batterio) e l'azione di alcuni enzimi (che permettono di bypassare le vie metaboliche bloccate dall'antibiotico). Sono i meccanismi che conferiscono la resistenza, per esempio, a molti farmaci di uso comune, come la vancomicina, la tetraciclina o gli antibiotici beta-lattamici.


La lotta a questo preoccupante fenomeno sarà molto lunga. La strategia migliore per vincerla potrebbe essere quella di comprendere meglio i meccanismi di selezione naturale che impediscono a questi geni di passare dai batteri che ne sono portatori a tutte le popolazioni batteriche dell'ambiente.

Terapia genica: l'enzima con il "pass", che attraversa la barriera ematoencefalica

Ricercatori napoletani dimostrano in laboratorio come superare la barriera che ostacola il trasporto di farmaci nel sistema nervoso. Nuova speranza per i pazienti affetti da sindrome di San Filippo, grave malattia neurodegenerativa di origine genetica

A descrivere questa nuova strategia è uno studio coordinato da Alessandro Fraldi dell’Istituto Telethon di genetica e medicina di Napoli. 

La sindrome di San Filippo è dovuta a un difetto ereditario in un enzima, la sulfamidasi, deputato allo smaltimento di un particolare tipo di zucchero, che con il tempo tende ad accumularsi e a danneggiare diversi tessuti, specialmente quello nervoso. Questi pazienti vanno incontro ad un grave e rapido deterioramento mentale già a partire dai primi anni di vita, progressiva perdita delle capacità motorie, problemi di comunicazione, convulsioni. Al momento non esiste alcuna terapia efficace, ma soltanto una serie di interventi sui sintomi. 

Nei pazienti affetti da questa grave patologia genetica non basta somministrare dall'esterno l’enzima mancante prodotto industrialmente, perché il cervello è protetto da una barriera naturale, chiamata emato-encefalica, che seleziona con attenzione le sostanze che possono arrivare alle cellule nervose, bloccando quelle che riconosce come estranee.  I ricercatori hanno provato ad aggirare il problema con una nuova tecnica in grado di “convincere il cervello” ad accettare il farmaco. Hanno inserito il gene codificante per la versione corretta della sulfamidasi in un virus adatto alla terapia genica. Una volta iniettato nel sangue,  questo vettore virale entra preferenzialmente nel fegato, organo che funziona come un vero e proprio serbatoio di enzimi per il resto dell’organismo. La particolarità del metodo sta nel fatto che al gene terapeutico sono stati aggiunti due “pezzetti” speciali: uno che aumenta la secrezione dell’enzima nel sangue da parte del fegato, l’altro che rende l’enzima riconoscibile da parte della barriera emato-encefalica e ne consente così l’accesso al sistema nervoso

In questa versione la terapia enzimatica sostitutiva si è dimostrata in grado di raggiungere il cervello, nel modello animale della sindrome di San Filippo: non solo non si sono registrati effetti tossici, ma si è riscontrata una capacità dell’enzima di raggiungere le cellule del cervello, esercitare la sua normale azione detossificante e soprattutto migliorare significativamente i sintomi della malattia, anche dal punto di vista comportamentale.

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