Le biotecnologie rappresentano un metodo in più a
disposizione dell’agricoltura: esse rendono possibile l’inserimento nelle
piante di specifici geni, anche provenienti da specie assai diverse, la cui
funzione è nota, affinché questi vengano espressi ed ereditati nelle
generazioni successive. Il miglioramento genetico quindi non è altro che un
sistema per ottimizzare la selezione naturale. Le tecniche biotecnologiche
applicate in agricoltura stanno portando alla “costruzione in laboratorio” di
nuovi alimenti i cosiddetti “cibi transgenici”; questi ultimi si presentano
come cibi migliorati dal punto di vista della durata, del gusto, del valore
nutritivo (più vitamine, sali minerali, meno colesterolo, meno grassi, ecc.),
che potrebbero potenzialmente risolvere le piaghe che affliggono i paesi
sottosviluppati. Le piante transgeniche sono quelle in cui è stato introdotto
un gene estraneo che può provenire dalla propria specie o da altre specie. I
pomodori, come le mele, le banane e molti altri frutti, continuano a maturare
anche dopo la raccolta. Gradualmente cambiano colore, consistenza, sapore, fino
a diventare immangiabili e marcire. L’intero processo avviene per azione
dell’etilene il quale è contenuto in un ormone della crescita e innesca quelle
reazioni interne di maturazione che degradano le pareti cellulari della frutta
e le espongono agli agenti esterni. La soluzione biotecnologica a questo
problema è molto semplice: inibire tramite alcuni geni la produzione di etilene
nelle piante, rallentando drasticamente la maturazione dei frutti. Vediamo
allora nel dettaglio come avvengono questi “trasferimenti di geni”. La tecnica
più diffusa per introdurre geni nel nucleo delle cellule vegetali, si basa
sulla capacità di un batterio, l’Agrobacterium tumefaciens, di trasferire parte
del proprio patrimonio genetico alle piante che infetta. Questo parassita
attacca le radici e introduce nelle cellule un plasmide1 che induce la
formazione di un tumore, il “callo del colletto”. Il plasmide si comporta nella
cellula vegetale come un disco di programma in un computer, obbligando la
pianta a produrre tutto che è codificato nella propria sequenza di acido
nucleico, a seguito di un’integrazione dell’informazione che è permanente.
Manipolando il DNA del batterio, in modo da eliminare i geni che provocano la
malattia nella pianta e sostituendoli con geni portatori dell’informazione
genetica che si desidera trasmettere alla stessa, si ottiene una pianta con le
caratteristiche desiderate. Secondo molti ambientalisti il rilascio in natura
di organismi geneticamente modificati è pericoloso, perché è impossibile
valutare in laboratorio l’interazione tra il nuovo essere e l’ambiente. I
rischi riguardano la comparsa di “supererbacce” e di “superparassiti” , la
nascita di nuovi ceppi di virus pericolosi o di malattie resistenti agli
antibiotici, l’estinzione di specie naturali, il diffondersi di allergie ai
nuovi cibi. Greenpeace afferma: “Gli organismi viventi si riproducono e si
diffondono ma non possono essere revocati, rilasciatene uno sbagliato
nell’ambiente e il disastro sarà irreparabile”. La modificazione genetica degli
organismi in sé non è né buona né cattiva: dipende solo dall’uso che se ne
vuole fare. Se ci sarà un approccio onesto e rispettoso verso chi dovrà
usufruirne, ci potranno essere benefici per tutti.
"... Il mio parere, e quello che io esprimo in Il secolo biotech, è che il serbatoio genetico deve rimanere aperto. È un patrimonio comune. Fa parte della comune eredità dell'evoluzione. Non dovrebbe essere ridotto a proprietà politica dei governi o proprietà intellettuale e commerciale delle società. Se riduciamo il serbatoio genetico a una proprietà privata che può essere sfruttata commercialmente avremo guerre genetiche nei prossimi secoli...". Jeremy Rifkin - 23/11/1998 - Repubblica
martedì 31 marzo 2015
Green Biotech : FITORIMEDIAZIONE
Cosa è la Fitorimediazione?
Quali sostanze inquinanti rimuove la fitorimediazione?
Quali piante vengono impiegate ?
La Fitorimediazione (LINK) è un processo biologico che, attraverso l'attività di organismi vegetali, rimuove gli inquinanti dal suolo, dai sedimenti e dalle acque.
da: http://www.corriere.it/Primo_Piano/ambiente/2012/05/28/pop_fito.shtml |
Le sostanze che inquinano l'ambiente e contaminano il suolo sono composti organici ed inorganici, metalli pesanti quali piombo, cadmio, nickel, zinco e sostanze prodotte sinteticamente come le xenobiotiche. Le
piante
promuovono
una
grande
varietà
di
processi
biologici
che
vengono
sfruttati
per
la
bonifica
di
aree
inquinate:
- estrazione dei metalli e delle sostanze organiche dal suolo
- accumulo e trasformazione dei composti per mezzo di: lignificazione, volatilizzazione, metabolizzazione e mineralizzazione
- utilizzo di enzimi per scindere sostanze complesse in composti più semplici.
Le piante che vengono utilizzate nei trattamenti della Fitorimediazione hanno particolari caratteristiche ovvero resistono alle alte concentrazioni di composti organici ed inorganici e ai metalli; esse sono capaci di assorbire tali inquinanti e trasformarli in altri composti meno tossici, e in alcuni casi riescono a degradarli completamente grazie al rilascio da parte delle piante di "essudati radicali", enzimi
e
composti
chimici
del
carbonio;
essi stimolano
la
degradazione
dei
composti
organici
nella
rizosfera
(porzione
di
sottosuolo
in
prossimità
dell’apparato
radicale).
In
altre
parole,
le
sostanze
rilasciate
dalle
radici
delle
piante
facilitano
e
potenziano
l’attività
di
degradazione
svolta
dai
microrganismi
presenti
nella
rizosfera.
Le specie di piante maggiormente utilizzate nei trattamenti della Fitorimediazione sono :
• Alberi da Pioppo: fungono da "pompe naturali" in quanto assorbono i pesticidi ed erbicidi tossici dalle falde acquifere.
• Tra i pioppi, le specie più adatte sono Populus deltoides e Populus trichocarpa.
Tipologie di Fitorimediazione
La Rizodegradazione è applicabile
nel
caso
di
contaminanti
organici
e
di
idrocarburi
petroliferi.
Nel
processo
di
Fitostabilizzazione,
l'immobilizzazione dei contaminanti ne
impedisce
la
migrazione
nelle
acque
sotterranee
o
l’ingresso
nella
catena
alimentare.
Con
la
Fitoaccumulazione
gli
inquinanti
non
vengono
distrutti
ma si
accumulano
nei
tessuti
della
pianta.
Questo
metodo
è
utilizzato
prevalentemente
nel
caso
di
contaminazioni
da
metalli
pesanti.
Vi sono alcuni fattori che influenzano l'attività dei vegetali impiegati in quanto devono trovarsi in un terreno con le condizioni adatte; questi fattori sono: il pH e la tessitura del terreno, la concentrazione di sodio, la potenza di irrigazione.
Quali i limiti?
Uno
dei
limiti
della
fitorimediazione
è
la
necessità
di
tempi
molto
lunghi
per
la
realizzazione
e
il completamento
del
processo.
Infatti
per
ottenere
una
significativa
riduzione
dei
livelli
di
concentrazione
delle
sostanze
contaminanti
occorrono
tempi
estremamente
lunghi,
variabili
dall’ordine
dei
mesi
fino
alle
decine
di
anni. L'efficacia dà però eccellenti risultati in quanto la fitorimediazione è adatta anche laddove ci sono alti livelli di contaminazione.
Un altro limite è la
potenziale
introduzione
di
sostanze
contaminanti
o
di
loro
metaboliti
nella
catena
alimentare.
http://greenchallenge.it/articoli/fitoremediation.pdf
FIORI TRANSGENICI: PIU' LONGEVI, PROFUMATI E CHE CAMBIANO COLORE
Il fiore che cambia colore se lo innaffi con la birra
Un'azienda
biotecnologica ha creato una petunia transgenica, che da bianca diventa rossa o
viola nel giro di 24 ore. La Petunia è una delle piante ornamentali
più diffuse sui balconi di mezzo mondo. A determinare il suo successo
commerciale sono le generose fioriture primaverili, che spaziano dal bianco
candido al viola, includendo un'estesa gamma di altre tonalità. Una startup
americana, chiamata Revolution
Bioengineering (RevBio), è però andata oltre: attraverso un processo di ingegnerizzazione
genetica ha creato una variante del fiore (ribattezzata Petunia Circadia) in grado di cambiare colore in 24 ore. Per innescare il meccanismo
bisogna fornire alla pianta un po' di alcol etilico, innaffiandola, ad esempio,
con un goccio di birra.
PIANTA TRANSGENICA. In natura la tinta dei fiori è regolata da pigmenti colorati, denominati antociani (o antocianine). Se una Petunia è bianca, dipende dal fatto che uno degli enzimi coinvolti nella biosintesi delle antocianine non funziona correttamente, bloccando di fatto il processo che "pittura" il fiore. Keira Haven e Nikolai Braun, i due biologi molecolari fondatori di RevBio, hanno studiato a fondo questa via metabolica per creare un organismo geneticamente modificato (OGM): in pratica hanno modificato artificialmente il DNA della pianta (ricombinandolo con dei geni di lievito) per fare in modo che uno specifico enzima si attivi o disattivi a comando, in modo analogo a quando si schiaccia l'interruttore di una lampadina. Nello specifico, l'enzima si accende dopo che la petunia bianca ha assorbito una soluzione acquosa contenente etanolo: l'alcol (la birra di cui parlavamo è solo una delle declinazioni possibili) mette in moto la catena di montaggio delle antocianine e nel giro di un giorno i fiori diventano, ad esempio, rossi. Il meccanismo, dicono gli scienziati, è reversibile: è sufficiente inumidire il terriccio con acqua liscia per tornare alle condizioni di partenza.
PIANTA TRANSGENICA. In natura la tinta dei fiori è regolata da pigmenti colorati, denominati antociani (o antocianine). Se una Petunia è bianca, dipende dal fatto che uno degli enzimi coinvolti nella biosintesi delle antocianine non funziona correttamente, bloccando di fatto il processo che "pittura" il fiore. Keira Haven e Nikolai Braun, i due biologi molecolari fondatori di RevBio, hanno studiato a fondo questa via metabolica per creare un organismo geneticamente modificato (OGM): in pratica hanno modificato artificialmente il DNA della pianta (ricombinandolo con dei geni di lievito) per fare in modo che uno specifico enzima si attivi o disattivi a comando, in modo analogo a quando si schiaccia l'interruttore di una lampadina. Nello specifico, l'enzima si accende dopo che la petunia bianca ha assorbito una soluzione acquosa contenente etanolo: l'alcol (la birra di cui parlavamo è solo una delle declinazioni possibili) mette in moto la catena di montaggio delle antocianine e nel giro di un giorno i fiori diventano, ad esempio, rossi. Il meccanismo, dicono gli scienziati, è reversibile: è sufficiente inumidire il terriccio con acqua liscia per tornare alle condizioni di partenza.
Nuove scoperte scientifiche. Dagli Usa la soluzione per allungare la vita ai fiori recisi.
Fare in modo che i
fiori recisi durino più a lungo e si mantengano freschi per molti giorni
utilizzando un virus geneticamente modificato (OGM). E’ l’obiettivo del progetto
di ricerca dell’Agricultural Research Service (Ars) degli Stati Uniti.
I ricercatori dell’Ars, coordinati dal fisiologo vegetale Cai-Zhong Jiang,
stanno cercando di disattivare i geni dell’invecchiamento delle piante
utilizzando il virus della necrosi striata, responsabile di una malattia che colpisce le foglie. La tecnica, chiamata “silenziamento genico indotto da virus”, consiste
nell’introdurre nelle piante il virus allo scopo di attivarne i meccanismi di difesa naturale che portano allo spegnimento del
virus stesso e dei suoi geni. Poiché i geni che fanno invecchiare le piante, diventati parte del corredo genetico del virus, vengono disattivati dalla pianta stessa.
Gli esperimenti sono stati condotti sulla petunia viola. La pianta è stata esposta al virus Gm nella quale era stato introdotto il gene che controlla il colore e un frammento di un gene responsabile della produzione dell’etilene, sostanza che causa l’invecchiamento delle piante. Come risultato si sono ottenuti fiori con macchie bianche e con meno etilene rispetto alle piante esposte al virus non modificato. Questa, per i ricercatori, potrebbe essere la prima dimostrazione che la strategia funziona.
Gli esperimenti sono stati condotti sulla petunia viola. La pianta è stata esposta al virus Gm nella quale era stato introdotto il gene che controlla il colore e un frammento di un gene responsabile della produzione dell’etilene, sostanza che causa l’invecchiamento delle piante. Come risultato si sono ottenuti fiori con macchie bianche e con meno etilene rispetto alle piante esposte al virus non modificato. Questa, per i ricercatori, potrebbe essere la prima dimostrazione che la strategia funziona.
Fiori OGM per i profumi del
futuro
Fino a
poco tempo fa, la domanda che accendeva discussioni tra nasi, critici del
profumo, perfume-bloggers, profumieri e consumatori, era sempre la solita: “meglio le note di sintesi o quelle
naturali?” Grande
dilemma. “Meglio la chimica che è più
stabile” oppure “meglio
le note naturali che sono più sincere, nessuna nota di sintesi potrà mai
ricreare perfettamente l’odore della natura”. In un futuro molto prossimo, invece, la domanda che ci
ritroveremo sulla punta del naso, annusando un profumo, sarà “OGM o naturale?“.
Nel corso degli ultimi anni, molte varietà di fiori hanno perso il loro profumo per colpa dell’inquinamento e per i cicli di coltivazione ma un team di scienziati della Hebrew University di Gerusalemme, attraverso manipolazioni genetiche, è riuscito ad aumentare di dieci volte il profumo dei fiori. Secondo il prof. Alexander Vainstein, responsabile dell’equipe di ricerca, “Il risultato ottenuto con questa ricerca permetterà la coltivazione di fiori transgenici dotati di un’elevata percentuale di profumo e di estrarne l’aroma senza seguire il ritmo naturale della pianta (*), inoltre consentirà la produzione di nuovi componenti aromatici”. Sempre secondo il prof. Alexander Vainstein, l’utilizzo dei fiori OGM nei prossimi anni rivoluzionerà la produzione e la creazione delle fragranze: l’industria essenziera sarà più propensa ad utilizzare oli essenziali estratti da fiori OGM anziché essenze estratte da coltivazioni naturali o molecole di sintesi perché con i “fiori mutanti” diminuiranno i costi di produzione e la resa della materia prima transgenica sarà maggiore rispetto a quella naturale. Infatti, l’alta concentrazione di aroma dei fiori transgenici, riduce di dieci volte il quantitativo di fiori necessari per l’estrazione della loro componente aromatica. Attualmente sono necessarie 5 tonnellate di petali di rosa damascena per ottenere un chilo di assoluta e una tonnellata di fiori per ottenere 1.5 kg d’assoluta di fiori d’arancio.
Nel corso degli ultimi anni, molte varietà di fiori hanno perso il loro profumo per colpa dell’inquinamento e per i cicli di coltivazione ma un team di scienziati della Hebrew University di Gerusalemme, attraverso manipolazioni genetiche, è riuscito ad aumentare di dieci volte il profumo dei fiori. Secondo il prof. Alexander Vainstein, responsabile dell’equipe di ricerca, “Il risultato ottenuto con questa ricerca permetterà la coltivazione di fiori transgenici dotati di un’elevata percentuale di profumo e di estrarne l’aroma senza seguire il ritmo naturale della pianta (*), inoltre consentirà la produzione di nuovi componenti aromatici”. Sempre secondo il prof. Alexander Vainstein, l’utilizzo dei fiori OGM nei prossimi anni rivoluzionerà la produzione e la creazione delle fragranze: l’industria essenziera sarà più propensa ad utilizzare oli essenziali estratti da fiori OGM anziché essenze estratte da coltivazioni naturali o molecole di sintesi perché con i “fiori mutanti” diminuiranno i costi di produzione e la resa della materia prima transgenica sarà maggiore rispetto a quella naturale. Infatti, l’alta concentrazione di aroma dei fiori transgenici, riduce di dieci volte il quantitativo di fiori necessari per l’estrazione della loro componente aromatica. Attualmente sono necessarie 5 tonnellate di petali di rosa damascena per ottenere un chilo di assoluta e una tonnellata di fiori per ottenere 1.5 kg d’assoluta di fiori d’arancio.
La
ricerca non finisce qui. La stessa equipe è riuscita ad impiantare un aroma in
una varietà di fiori senza profumo.
"Sinceramente,
questa notizia non mi rende molto felice... Un profumo è
una poesia che si scrive sulla pelle, gli odori sono piaceri da godere con il
naso. Sapere che la fragranza che indosso è realizzata con fiori transgenici,
mi fa passare la voglia di poesia e anche il piacere. Mi chiedo, anche, se il
sentore di un fiore manipolato geneticamente riuscirà a commuovermi come
l’odore notturno del cespuglio di gelsomini che fiorisce selvaticamente
d’estate nel mio giardino" (Simona Savelli, autrice articolo).
(*) L’intensità e l’emissione del profumo dei fiori sono regolate da diversi fattori come il ciclo circadiano (giorno/notte), le condizioni atmosferiche, l’età del fiore e la specie botanica.
(*) L’intensità e l’emissione del profumo dei fiori sono regolate da diversi fattori come il ciclo circadiano (giorno/notte), le condizioni atmosferiche, l’età del fiore e la specie botanica.
LA POLEMICA:
Fiori fotocopia sbocciano nelle provette dei laboratori. Non gelano, non sfioriscono, vivono dappertutto e hanno colori e profumi di altre specie.
La produttivita' ha ucciso gli
odori
black bacarat da selezione e incroci tradizionali |
Roberta Salvadori. DOMANDE E RISPOSTE
"Le rose «nere» appena comparse sul mercato sono transgeniche"? No. La Black Bacarat, questo è il nome della rosa, detta nera ma in realtà di un rosso scurissimo, è una varietà ottenuta con incroci e selezione tradizionali.
"Come sono ottenute le rose bluastre in vendita dai fiorai"? In realtà si tratta di rose bianche che i floricoltori immergono in acqua colorata con un colorante blu (anilina) che viene assorbito da fiori, steli e foglie che diventano anch' esse bluastre.
"Come ma i ciclamini durano tutto l' inverno all'aperto anche se la temperatura va sotto zero"? I ciclamini in genere sono piante che si adattano bene al freddo. Le varietà più resistenti al gelo sono il risultato di selezioni genetiche tradizionali.
"Perché a volte i fiori recisi del fioraio restano belli tanto a lungo"? Possono essere trattati con sostanze conservanti perché durino di più. Spesso si tratta di sali d' argento diluiti nell'acqua in cui sono immersi gli steli.
Estratto di un articolo di Salvadori Roberta
http://archiviostorico.corriere.it/2001/giugno/17/Fiori_fotocopia_sbocciano_nelle_provette_co_0_0106179667.shtml
http://archiviostorico.corriere.it/2001/giugno/17/Fiori_fotocopia_sbocciano_nelle_provette_co_0_0106179667.shtml
L'elisir della lunga vita: il resveratrolo
DNA ESOTICI? NO SINTETICI!
ARRIVA IL DNA SEMISINTETICO: XNA! LA VARIABILE E' LO ZUCCHERO :-)
Gli scienziati per la prima volta sono riusciti a ottenere un sistema di trasmissione dell’informazione genetica basato su acidi nucleici diversi da DNA e RNA, gli XNA. La scoperta (2012) può chiarire le origini della vita: uno di questi acidi nucleici sintetizzato dagli scienziati potrebbe essere l’anello mancante fra il mondo pre-biotico e l'ipotizzato “mondo a RNA” primordiale. La scoperta è di Rosemberg e collaboratori.
Negli XNA, al posto degli zuccheri ribosio o deossiribosio c’è il treosio (TNA), un tetroso, o anche altri zuccheri. Per il TNA i ricercatori sono riusciti a ottenere un altro elemento essenziale alla trasmissione dell’informazione genetica: le polimerasi. DNA e RNA polimerasi sono enzimi capaci di leggere e trascrivere le normali sequenze di acidi nucleici. In natura, tuttavia, non esistono polimerasi per le molecole di XNA. Però i ricercatori sono riusciti a produrre polimerasi sintetiche che potrebbero copiare il DNA in XNA.
Diversi XNA possono funzionare come polimeri genetici sintetici, ma gli scienziati non hanno ancora realizzato un sistema genetico sintetico completamente “autonomo” rispetto al DNA. Ciò è sufficiente per rilanciare il dibattito sulle origini della vita. Secondo un'ipotesi, la più semplice molecola di RNA avrebbe preceduto il DNA come mezzo di codifica dell’informazione genetica e i primi esempi di vita si sarebbero basati sull’RNA dato che questa molecola è anche in grado di catalizzare reazioni chimiche, come un enzima. Tuttavia, la comparsa di una molecola complessa come l’RNA da una sequenza di processi casuali a partire da prodotti chimici semplici è da molti considerato un evento improbabile. Secondo i ricercatori, il TNA potrebbe essere un buon candidato al ruolo di intermediario fra il mondo pre-biotico e il mondo a RNA.
Il primo organismo con
DNA sintetico: è un batterio E.coli
Proteine formate da amminoacidi sintetici da usare in ambito diagnostico e terapeutico? E' lo scenario futuro. Per ora, in uno studio pubblicato su Nature, frutto del lavoro di un team di ricercatori guidato da Floyd Romesberg, è stato creato il primo organismo vivente in grado di replicare DNA non esistente in natura, con basi aggiunte dall'uomo allo scopo di espandere l'alfabeto genetico.
La vita sulla terra in tutta la sua diversità è
codificata solo da due paia di basi di DNA, A-T e C-G. Quello che il
team di Romesberg ha generato è un organismo che contiene stabilmente queste due più un terzo, innaturale, paio di
basi”. Romesberg e collaboratori hanno iniziato a lavorarci alla fine degli
anni '90, ma trovare due basi in grado di
appaiarsi con un'affinità comparabile a quella delle coppie naturali A-T
e C-G, di inserirsi stabilmente nel doppio filamento di DNA, di
separarsi e riappaiarsi “a comando” quando necessario e non essere riconosciute
come estranee dai meccanismi di riparazione naturale del DNA non è stato
semplice. La grande sfida per i ricercatori è stata rendere le basi funzionanti
nell'ambiente complesso di una cellula vivente.
E. coli |
Qualcuno potrebbe sentirsi minacciato dalla possibilità che questo tipo di studi scientifici possa portare alla diffusione incontrollata di nuove forme di vita. Tuttavia, i ricercatori forniscono rassicurazioni a tal proposito, spiegando il fatto che le due basi non sono naturalmente disponibili nell'ambiente e che gli esperimenti condotti hanno dimostrato che possono essere introdotte nelle cellule solo attivando la molecola trasportatrice, senza la cui attività queste due basi sparirebbero letteralmente dal materiale genetico presente nel batterio. Il prossimo passo sarà dimostrare che le cellule viventi possono utilizzare questo DNA semisintetico per produrre l'mRNA da cui ottenere, delle proteine.
Dal Dna semisintetico, in futuro, i carburanti biologici
Con la realizzazione di un batterio con DNA semisintetico si è riusciti ad avere una specie di batteri OGM più sicuri, con i quali fabbricare nuove proteine “artificiali”. Attualmente una proteina prodotta da un batterio ingegnerizzato interferisce con le sue normali funzioni biologiche. Il risultato è un rallentamento del metabolismo del batterio ed un basso rendimento nella fabbricazione della proteina. Con l’aggiunta di nuove basi, il DNA nativo potrebbe continuare a svolgere tutti i suoi compiti garantendo una maggiore produzione della sostanza di interesse e mantenendo anche un maggior tasso di replicazione del batterio.
Campi di applicazione: batteri-fabbrica utili per biocarburanti e per programmi di depurazione ambientale; farmaci biologici, uso di batteri contro i tumori (modificando il microorganismo, insegnandogli a riconoscere una determinata proteina espressa solo dalle cellule di un certo tumore, iniettandolo nell'organismo e aspettando che distrugga solo le cellule tumorali e non quelle sane). «Sono prospettive per ora teoriche e non si sa in quanto tempo realizzabili, però la pubblicazione su Nature, almeno in linea di principio, è davvero rivoluzionaria e apre una nuova fase».
Ewen Callaway su Nature : First life with 'alien' DNA
Il team di Romesberg ha utilizzato Escherichia coli per esprimere un gene da una diatomea - un'alga unicellulare –che codifica per una proteina che permette alle molecole di basi aliene di attraversare la membrana del batterio. Gli scienziati hanno poi creato un plasmide contenente una singola coppia di basi estranee, ed inserito il tutto in cellule di E. coli. Quando la fornitura di nucleotidi alieni è stata interrotta, i batteri hanno sostituito le basi straniere con quelli naturali: la capacità di controllare l'assorbimento di basi del DNA estraneo, è visto dagli scienziati come una misura di sicurezza che impedisce la sopravvivenza delle cellule estranee fuori del laboratorio. Potenziali usi della tecnologia includono l'incorporazione di un amminoacido in una proteina tossica per garantire che uccida solo le cellule tumorali, e lo sviluppo di aminoacidi fluorescenti che potrebbero aiutare gli scienziati a monitorare reazioni biologiche al microscopio. La creazione di un organismo completamente sintetico è ancora una sfida enorme.
Le biotecnologie e l’ingegneria genetica
Le biotecnologie...
Molti prodotti alimentari, come il
pane, il vino e lo yogurt, da migliaia di
anni presenti sulle nostre tavole, sono
“vivi”, perché nella loro preparazione
intervengono microrganismi, ossia
microscopici organismi viventi, attraverso
reazioni chimiche controllate da
specifici enzimi.
Lo yogurt è latte fermentato, reso
acido da microrganismi che trasformano il lattosio,
zucchero del latte, in acido lattico; nel
vino, invece, lo zucchero dell’uva viene
trasformato in alcol; il pane, infine, lievita
grazie alla produzione di anidride
carbonica da parte di particolari microrganismi,
i lieviti.
Il ruolo dei microrganismi (e degli
enzimi da essi prodotti) nella produzione
di questi alimenti fu individuato
da Louis Pasteur nel 1876 e, da allora,
l’utilizzo (consapevole) dei microrganismi
ha consentito lo sviluppo di tecnologie
in grado di realizzare prodotti
utili per uomo: le biotecnologie.
Le biotecnologie sono dunque quelle tecnologie
che utilizzano microrganismi
(o cellule animali e vegetali o,
ancora, gli enzimi da essi prodotti)
per la realizzazione di prodotti utili per l'uomo!
Ingegneria genetica
Il grande “salto” in avanti delle biotecnologie si realizzò solo dopo che Watson e Crick (1953) elaborarono il loro modello della struttura del DNA, identificando in questa molecola la sede delle informazioni genetiche per la produzione di qualunque proteina. La scoperta dei meccanismi che regolano la sintesi proteica ha consentito, dagli anni ’70, lo sviluppo di una tecnologia in grado di far produrre da un organismo microscopico (riproducibile in gran quantità e a un costo relativamente limitato) una proteina di un altro organismo, impossibile da ottenere in altro modo o, comunque, ottenibile (per estrazione o per sintesi industriale) in quantità limitate o solo a costi molto elevati.
Questa tecnologia, detta tecnologia del DNA ricombinante o ingegneria genetica, impiega il DNA ricombinante, ossia
una molecola di DNA ibrida, ottenuta
inserendo il gene della proteina desiderata
in una molecola di DNA - vettore che si introduce e si replica nelle
cellule dell’organismo da cui si vuol far
produrre la proteina (cellule ospiti). In
pratica, da una cellula di un organismo
“donatore” si estrae il gene richiesto (o,
meglio, frammenti del DNA tra i quali
è compreso anche quello richiesto), lo
si lega a un vettore (una molecola particolare
di DNA capace di penetrare in
una cellula ospite) formando così un
DNA ibrido, detto DNA ricombinante,
che si inserisce in una cellula “ospite”,
appartenente a un altro organismo.
La cellula ospite, ricevuto il DNA ricombinante,
acquisisce la capacità di
produrre la proteina codificata da quel
gene, cioè si trasforma, diventa una
cellula ricombinante.
La trasformazione comporta per
la cellula l’acquisizione di una nuova
proprietà: la capacità di produrre
quella proteina. Essendo stabilmente
integrato nel DNA della cellula ospite,
il gene si riproduce insieme alla cellula,
per cui le cellule figlie manterranno
tutte la capacità di produrre la nuova
proteina.
Stimolando la riproduzione delle
cellule ospiti (clonazione), in poco
tempo si otterrà una popolazione di milioni di cellule, tutte in grado di produrre
la proteina desiderata.
Le cellule che vengono utilizzate
come “ospiti” del DNA ricombinante
devono essere:
1) in grado di ospitare il DNA ricombinante
(che va costruito utilizzando
un vettore adeguato alla cellula in
cui deve inserirsi);
2) facili da coltivare (si devono riprodurre
rapidamente);
3) innocue (sia per il personale di laboratorio
che le manipola che per il
destinatario della proteina prodotta:
non possono essere usate cellule di
microbi patogeni, che potrebbero
infettare i laboratoristi o contaminare
la sostanza proteica da produrre
con sostanze tossiche prodotte dal
batterio stesso).
http://online.scuola.zanichelli.it/barbonescienzeintegrate/files/2010/04/V17_01.pdf
Questa tecnologia permette interventi mirati, che modificano in modo specifico solo i geni dei caratteri su cui si vuole agire. Inoltre, le metodologie odierne consentono di trasferire DNA non solo tra individui della stessa specie, ma anche tra specie diverse, spesso molto differenti l’una dall’altra. Si possono, per esempio, trasferire geni da un batterio a una pianta o introdurre in un batterio un gene proveniente da una cellula eucariotica.
Gli scopi di questa operazione possono essere diversi: determinare un miglioramento genetico nell’individuo ricevente (per esempio, una maggiore resistenza agli attacchi dei parassiti), oppure utilizzare l’organismo ricevente per clonare il gene introdotto e servirsi della cellula ospite come una «fabbrica» per la produzione di molecole utili.
Il primo passaggio consiste sempre nel tagliare il DNA. Per tagliare e ricucire i geni sono necessari enzimi specifici (enzimi di restrizione e ligasi). La loro scoperta è stata la chiave che ha aperto la porta allo sviluppo di tutte le tecniche di manipolazione del DNA.
http://ebook.scuola.zanichelli.it/sadavabiologiablu-plus/le-basi-molecolari-della-vita-e-dell-evoluzione-plus/le-biotecnologie/la-tecnica-del-dna-ricombinante-e-alla-base-delle-moderne-biotecnologie-plus#
lunedì 30 marzo 2015
BIONANO E NANOBIO TECNOLOGIE: UNA REALTA' CHE SEMBRA FANTASIA
La nanotecnologia è un ramo della scienza applicata e della tecnologia che consiste nella manipolazione della materia a livello atomico e molecolare.
L'obiettivo specifico della ricerca e dell'innovazione nel settore delle biotecnologie è sviluppare prodotti e processi industriali competitivi, sostenibili, sicuri e innovativi e fungere da motore innovativo in un certo numero di settori come l'agricoltura, la silvicoltura, i prodotti alimentari, l'energia, i prodotti chimici e la salute, nonché la bioeconomia basata sulla conoscenza.
Una rivoluzionaria applicazione bionanotecnologica è quella dei:
NANOROBOT AUTOASSEMBLANTI A DNA
I nanorobot autoassemblanti creati con la ormai classica tecnica dell'origami a DNA, che sfrutta il naturale ripiegamento della molecola in forme ben precise ed in particolare la tendenza delle basi nucleotidiche del DNA ad accoppiarsi con le loro basi complementari (per esempio l'A con la T), hanno una limitata gamma di movimenti.
DNA origami- da: http://scitechdaily.com/
Per dotare i loro dispositivi di una gamma di movimenti più ampia e complessa di quella finora permessa, i ricercatori del Politecnico di Monaco di Baviera, si sono ancora una volta ispirati alla natura, copiando il meccanismo – basato sulla complementarietà delle forme tridimensionali - che permette a molte proteine e altre molecole biologiche di formare legami chimici relativamente deboli che possono essere prontamente interrotti quando non sono più necessari, producendo così una serie di dispositivi di DNA, che vanno da filamenti a scala micrometrica che imitano i flagelli batterici da montare come propulsori su nanomacchine, fino a un nanorobot umanoide a cui è possibile far muovere le braccia con una semplice sistema di controllo.
Schema dell'assemblaggio del nanorobot umanoide. (Cortesia H. Dietz / TUM) |
Un'utile applicazione nanobiotecnologica riguarda l'uso di
NANOPARTICELLE D'ORO PER IDENTIFICARE O UCCIDERE CELLULE TUMORALI
Un gruppo di ricercatori dell’Istituto di fisica applicata del Consiglio nazionale delle ricerche e dell’Università di Firenze hanno sfruttato la capacità delle cellule tumorali di sopravvivere anche in condizioni di scarsa ossigenazione, per renderle riconoscibili da parte di nanoparticelle d’oro in grado di individuarle e distruggerle. In particolar modo ciò avviene in quanto le cellule cancerose ipossiche reagiscono alla carenza di ossigeno esprimendo sulla membrana un enzima chiamato anidrasi carbonica 9. I ricercatori in questione hanno così reso riconoscibile questa sorta di impronta da parte di nanoparticelle d’oro fornite di un inibitore dell'enzima, per esempio un sulfamidico: le nanoparticelle in tal modo identificano e attaccano le cellule tumorali ipossiche, che sono le più difficili da raggiungere con le terapie convenzionali. Una volta legate in maniera selettiva a queste cellule, le nanoparticelle possono essere attivate con un laser per scopi sia diagnostici che terapeutici. A seconda del regime di esposizione luminosa, le nanoparticelle generano ultrasuoni oppure calore, che potrebbero essere rispettivamente impiegati per l’imaging diagnostico oppure per la rimozione ipertermica delle cellule maligne. In pratica, le nanoparticelle d’oro possono evidenziare la presenza delle masse tumorali oppure distruggere con il calore le cellule che le compongono.
http://www.cnr.it/cnr/news/CnrNews?IDn=3137
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